martedì, agosto 15, 2006

Arrivo Dhaka - 10 agosto


Non c’e dubbio: sono davvero in un mondo parallelo.

E’ difficile guadare a questa realta’ con gli occhi di un’occidentale ed e’ ancora piu’ difficile abituarsi agli sguardi di questa gente, evidentemente nno abituata ad avere nel loro steso villaggio una straniera, bianca per giunta.

Durante I vani tentativi di prendere sonno, sono arivata alla conclusione che scrivere e; una corsa contro il tempo: devi mettere tutto sul foglio prima che le parole lascino la mente e ti sfuggano. Soprattutto quando hai tante cose da dire. Voglio comunque tentate di farvi percepire le mie sensazioni da questo luogo cosi’ lontano e cosi’ diverso.


L’aeroporto di Dhaka, come tutti gli aeroporti, e’ un luogo di passaggio e quindi non rispecchia fedelmente la cultura del luogo. Nonostante la mia valigia sia rimasta Dubai, non mi sono fatta roinare la giornata e dopo aver fatto la denuncia mi sono diretta fuori dal terminal.

Una volta uscita questo mondo si e’ mostrato in tutta la sua follia e normalita’.

Sono spettatrice, non di cose stra-ordinarie, ma di normalita’ ed ordinarieta’. Ed e’ questo che vale la pena descrivere.

La temperatura tropicale, l’umidita’ insopportabile, il sole picchiante sono solo un contorno.

Appea uscita sono stata subito circondata da donne (meglio dire ragazzine) che chiedevano la carita’. Non sapendo come fare mi sono guardando intorno cercando il viso conosciuto di mia zia. Finalmente la trovo e mi conduce alla macchina che ci aspetta.

Le auto qui sono poche e sono sempre afittate da gente ricca che si puo’ permettere di pagare 5000 Taka per un autista, e I rickshaw (riscio’) la fanno da padrona su queste strade (rasta).

Dhaka e’ la capitale del paese, una grande citta’ caotica e caldissima.

E’ dura scendere dall’auto ed entrare nei negozi (dove abbiam fatto scorta di viveri occidentali), senza fermarsi increduli a notare le condizioni precarie nelle quali vivono queste persone. Tra un negozio e l’altro, tutti gli sguardi sono fissati su di me. Tutti vogliono che entri nel loro negozio di vestiti, artigianato, di frutta. Mi rendo subito conto che questi negozianti godono di un certo relativo benessere poiche’ le botteghe sono al coperto, con aria condizionata.

Ma una volta usciti un ragazzina a piedi scalzi e vestita con una tunica rossa, mi si avvicina e chiede la carita’. Per un attimo, prima che mia zia la mandasse via con voce decisa, ho incontrato il suo sguardo e mi sono sentita in colpa. Non so come funziona qui…non so come comportarmi ma vorrei aiutarla. E’ poco piu’ di una bambina.

Il mio sguardo da occidental fatica a confrontarsi con questa realta’, una realta’ che potevo solo immaginare.

La ragazzina continuava a seguirci e cosi’ mia zia le ha detto che, se voleva parlare con me, avrebbe dovuto farlo in inglese. Cosi’ uscirono dalla sua bocca parole come “Please, Madame, money”. Aveva paura, quasi il terrore di guardarmi. Avrei voluto fare qualcosa ma venivo trascinata da un negozio all’altro. Qui I prezzi sono fissi. Mia zia comincia ad indicare ad un commeso I prodotti desiderati mentre un altro scrive laboriosamente quantita’ e prezzi su un foglio di carta.

Mi sento spaesata e stanca ma la curiosita’ e’ piu’ forte. Ascolto I loro discorsi senza capire una parola e dalla finestra guardo la bambina che corre dietro ad un carro di legno trainato da un bue.

Usciamo dal negozio e ce ne andiamo con l’auto carica di scatole.

Mentre il nostro autista si fa strada strombazzando fra riscio’, bici e auto guardo le vie trafficate della citta’. Ovviamente non esistono regole della strada: riscio’ contro mano, autobus decadenti carichi di gente anche sopra il tetto. Piu’ di una volta ho pensato che ci saremmo trovati In un incidente. Ma poi ho capito che e’ il loro modo di guidare: suonano il clacson in continuazione per far spostare I riscio’ sulla destra e le auto contromano.

E’ il caos. Guardo fuori con un misto di stupore e curiosita’ di chi vede questo mondo per la prima volta.

Incontro gli occhi dei passanti e tutti mi osservano stupiti e curiosi. E’ strano. Surreale.

Poi l’auto si allontana piano piano dalla citta’ e dai suoi dintorni. Incontriamo molti animali : mucche, pecore, tori. Sono sul ciglio della strada accanto ai loro padroni.

Poi cominciano il verde dei campi e le infinite risaie. Andiamo in aperta campagna. Ci sono solo poche abitazioni e gli abitanti si muovono in riscio’e ci osservano mentre sfrecciamo in mezzo a loro. Siamo tre passeggeri: io, mia zia Laily (originaria di qui), suo fratello ed una sua amica che fa la sarta. Quest’ultima, che ha un figlio bellissimo, e’ gentile e mi sorride sempre. Ho voglia di parlare con lei, di farle tante domande. Ma la barriera linguistica e’ imponente e lei non parla inglese, se non per qualche parolina.

Devo quindi rassegnarmi, per ora, ad ascoltare e a lasciare a mia zia l’onere di tradurre quando la cosa mi riguarda. Lei nutre molte speranze nei miei confronti ed e’ certa che imparero’ in fretta la lingua, confortata dall’esempio dei suoi due figli. Non pensa pero” ad una piccola differenza: I miei cugini vengono qui tutti gli anni da quando sono nati.

Sulla strada per Bogra, un tragitto di 4 ore, ci fermiamo a pranzare. Il ristorante si chiama “The Aristocrat” e ho notato che e’ un nome comune fra I ristoranti qui.

L’esterno e’ composto a un parcheggio, dove una decina di guardie armate ci aprono le porte e sorvegliano le auto. Entriamo nel ristorante.

Prima di sederci, pero’, mia zia vuole usufruire del bagno. Cosi’, sperando di poterlo utilizzare, la seguo. L’impatto mi delude: nonostante la struttura in finto marmo scuro abbia un aspetto decente, l’odore e’ insopportabile. C’e’ una signora scalza che passa una specia di scopa bagnata sul pavimento sporchissimo. Si aiuta con I piedi ma non credo stia usando un detergente..

Mia zia utilizza la toilette ma io non mi sento altrettanto coraggiosa.

Ci sediamo. Il ristorante e’ molto grande, composto da una struttura a due piano con tavoli e sedie di metallo. Prima di ordinare riso con pollo e vitello dobbiamo lavarci le mani. So gia’ che il rito e’ a causa del fatto che si mangia con le mani. Non credo che riusciro’ a farlo (almeno non oggi) ma li seguo ugualmente. Il lavatoio si trova al fondo della sala ed e’ sempre in pietra lucida scura. Ci sono 4 lavandini con saponetta e utilizziamo il nostro piccolo asciugamano.

Ordiniamo il cibo: il riso bianco sara’ servito in centro tavola su un vassoio molto grande mentre il condimento (pollo e vitello in salsa piccante) si trovano in piccoli piatti fondi. Il cibo nno mi preoccupa: anni di cucina di mia zia mi hanno preparata a questo momento e quindi so esattamente cosa sto per mangiare.

Faccio buona impressione perche’ mangio tutto quello che ho nel piatto.

Dopo aver pagato ripartiamo per Bogra.

Ad un certo punto ci fermiamo per pagare il pedaggio ( 500 Taka, 5 euro) per poter attraversare un ponte che collega le sponde di un fiume molto ampio. Mentre lo percorriamo mia zia mi racconta che questa struttura moderna esiste da poco tempo. Prima si doveva prendere un ferry ed il tragitto durava molte ore.

Percorriamo paesini e villaggi ed il panorama si fa sempre piu’ verde.

Passiamo davanti ad un ospedale ancora in costruzione e alla sede della Croce Rossa (o meglio, della Mezza Luna Rossa).

Poi finalmente eccoci a Bogra: una citta’ importante per la zona. MA lo scenario e’ lo stesso di Dhaka: riscio’ ovunque, fango, mercanti che vendono polli, galline, pecore.

Ci addentriamo con l’auto tra gli sguardi della gente e giriamo a destra in una stradina. La macchina si ferma davanti ad un cancello blu e noi scendiamo.

Stordita dallo sbalzo di temperatura mi giro con l’intenzione di recuperare le mie cose ma vengo subito fermata. Cosi’ mi dirigo verso la casa e vedo una signora magra e di una certa eta’ che mi viene incontro sorridendo. E’ la mamma di mia zia, che io chiamero’ Nani.

Mi bacia le mani e mi prende per mano conducendomi dentro casa. Mi porta davanti ad una scala e mi fa cenno di non togliermi le scarpe (cosa che invece lei fara’). Saliamo due piani e arriviamo in una stanza molto grande con aria condizionata. C’e’ un letto sulla destra. E’ la stanza di mia zia, la quale mi raggiunge subito dopo e mi porta a farmi vedere la mia camera da letto (che condivido con mio cugino Andrea). La nostra stanza e’ molto spaziosa e climatizzata (non lo sono I piani inferiori). Ci sono due letti francesi divisi da un comodino e sulla destra ci soo una scrivania ed una porta che apre sul bagno.

La porta della camera da sulla sala da pranzo, dove c’e’ anche una TV con canali satellitari.

Quando torno nella stanza di mia zia mi accorgo che sul pavimento ci sono due delle mie borse e vedo una ragazza che si accinge a depositarne una terza. Ci sono altre 3 ragazze nella stanza. Chiedo a mia zia di presentarmele. Sono le sue nipoti e, come dice lei, “aiutano in casa”. In realta’ sono come delle cameriere: cucinano, lavano, stirano e accorrono ad ogni richiamo della padrona di casa. Vivono al piano inferiore, dove tutti questi comfort non esistono e cucinano in una zona apposita. Ovviamente mangiano tutte insieme al piano inferiore, ma solo dopo averci servito. Sono un po’ turbata da questa cosa..

Chiedo a mia zia I loro nomi. Ne tengo mente solo alcuni, tra cui “Minu”, la quale ha un viso che riconosco: l’ho vista nel video del suo matrimonio (combinato da mia zia). Sorrido a ciascuna di loro e una si nasconde timidamente.

Dopo la doccia mi infilo un lungo vestito di cotone (stile BUBU africano) e vado a dormire.